Dialogo e musicalità
la via per la comprensione reciproca
Attraverso la nostra parola, nelle nostre conversazioni quotidiane, momento per momento, possiamo promuovere sinergia, creatività e pace o alimentare distruttività e conflitto.
Lo stesso vale per i pensieri che abitano la nostra conversazione interiore, il dialogo con noi stessi.
Nel rapporto di coppia questo è di tutta evidenza. La coppia cresce ed evolve se la conversazione è amichevole, se c’è rispetto reciproco, se c’è ascolto ed empatia, se c’è leggerezza e humor.
Ove domina la discussione, l’incomprensione, il bisogno di aver ragione, la diffidenza reciproca e il litigio, ove si generano pesantezza e dramma, lì si producono molti semi di infelicità, che con il tempo possono distruggere la coppia.
Considerazioni analoghe valgono per ogni tipo di relazione durevole, nei più diversi contesti e settori: lavoro, business, formazione, insegnamento.
Conversare in modo amichevole non è un fatto naturale ed istintivo, ma un’arte che si apprende.
Si apprende come si impara a suonare uno strumento musicale o a praticare una disciplina: occorrono impegno e dedizione.
Molte persone nel loro contesto famigliare hanno assimilato abitudini o routine difensive che sono incompatibili con l’arte della conversazione amichevole e produttiva: interrompono, si sovrappongono, non ascoltano, seguono il loro pensiero, contraddicono, mettono in dubbio ecc.
Ancora prima di aprire bocca, non si sintonizzano, non accordano il loro strumento con quello dell’altro. La musica che ne esce è pertanto stonata e sgradevole.
Una conversazione ben condotta è armonica, arricchente ed esteticamente interessante. Ne veniamo naturalmente attratti. Esserne parte ci ricarica, ci rende più euforici e leggeri. Ci rende più intimi e fiduciosi. Non vediamo l’ora di rivedere la persona con la quale possiamo praticare questo tipo di conversazione.
Una conversazione stonata e disritmica ci appesantisce, ci fa più deboli e meno felici. Molta energia vitale viene dissipata. Questo tipo di comunicazione impoverisce entrambi. Genera al nostro interno emozioni distruttive come rabbia, irritazione, risentimento.
Se non comprendiamo la vera causa di queste emozioni, se non sappiamo disidentificarci, esse pian piano avvelenano il nostro rapporto.
Non ci può essere rispetto o amore dove albergano emozioni distruttive, che con il tempo alimentano sempre più l’oceano interiore della mente insoddisfatta.
L’arte della musica è l’arte della risonanza, della convibrazione, dell’armonia e del ritmo. Ecco perché ne siamo così attratti. La buona musica rappresenta un modello straordinario da interiorizzare. In essa possiamo trovare i fondamentali della relazione sinergica e della conversazione felice.
Ogni volta che conversiamo, possiamo chiederci:
• che tipo di musica stiamo creando?
• Abbiamo accordato gli strumenti prima di suonare?
• C’è sintonia tra noi?
• Ci ascoltiamo reciprocamente?
• Andiamo a tempo?
• Rispettiamo le pause?
• Rispettiamo crescendi e diminuendi, accelerandi e ritardandi?
• Riprendiamo i modi espressivi l’uno dell’altro?
• Mettiamo in evidenza i temi? Li sviluppiamo?
• Creiamo il necessario collegamento tra essi?
• C’è equilibrio tra famigliarità e novità, tra prevedibilità e imprevedibilità?
Chi non rispetta le leggi fondamentali della musica, trova ben poca soddisfazione nel praticarla. Pertanto sarà tentato di cercare altri musicisti con cui suonare, o trovare altri brani da eseguire. Ma il risultato alla lunga non potrà che essere deludente. Non sta lì la soluzione.
La prima cosa da fare è riconoscere la causa immediata e tangibile dell’insuccesso: le cattive abitudini conversazionali, che funzionano come vere e proprie barriere alla comunicazione.
I contenuti non contano, gli interlocutori c’entrano relativamente.
Le cattive abitudini conversazionali hanno effetti molto profondi in quanto sovradeterminano il carattere della musica che, con la loro presenza, può essere suonata: armonica o disarmonica.
Interrompere, sovrapporsi, non ascoltare, seguire il proprio pensiero, mettere in dubbio, contraddire, svalutare, sminuire, fare pressing, criticare, emettere giudizi, fare letture della mente, fornire consigli non richiesti, sono esempi di pattern di uso assai comune.
Tutti servono i medesimi moventi, generalmente inconsapevoli:
▪ combattere per ottenere il potere dominio sull’altro
▪ contrastare il potere dominio dell’altro
▪ punirlo
▪ svalutarlo, umiliarlo
▪ giustificarsi, darsi ragione, ottenere ragione
▪ o alimentare la sofferenza, con cui ci si è identificati
In ogni caso, la relazione acquisisce carattere autoritario o distruttivo.
Un vero dialogo, come scambio di significati, non è possibile. La conversazione non è produttiva, ma si trasforma in una sorta di battaglia per avere ragione, difendere la propria immagine, imporre le proprie idee.
Il problema è che di solito gli interlocutori non sono consapevoli di ciò che realmente sta avvenendo, e in primo luogo non sono consapevoli delle mosse che fanno e del significato relazionale che assumono.
Solo degli effetti si rendono conto: inconcludenza, perdita di energia, emozioni distruttive, sofferenza.
Conversazioni autoritarie e distruttive non avvengono solo tra persone estranee o tra loro nemiche, ma anche tra partner, famigliari, colleghi, amici, anche i più cari.
In realtà sarebbe come se, volendo fare una partita di calcio, i giocatori, dopo i primi palleggi, portassero in campo spranghe e bastoni. La partita si trasformerebbe facilmente in rissa.
Tra il gioco del calcio e la pratica della conversazione quotidiana, ci sono due differenze fondamentali:
1. nel calcio, come in qualsiasi altro sport, ci sono regole tecniche, precise e codificate, nate dall’osservazione, inividuate e definite sia per migliorare le peformance, sia per scoraggiare o impedire interventi scorretti, pericolosi o inefficaci; nella conversazione queste regole non sono altrettanto ben definite, e spesso sono sconosciute e ignorate dai partecipanti;
2. nel calcio i giocatori si allenano per perfezionare le loro capacità nel rispetto delle regole; nella conversazione le capacità si danno per scontate e naturali, e di solito non ci si allena per migliorarle.
Queste differenze fanno sì che nel gioco del calcio, come nello sci o in qualsiasi altro sport, nel quale si riconosca la presenza di regole efficaci, si assista ad un continuo perfezionamento nelle performance e nell’estetica del gioco, miglioramento che è difficilmente riscontrabile nella conversazione quotidiana e nella pratica psicologica, che sono strettamente imparentate.
Se un allenatore fa un rilievo o dà un’istruzione ad un giocatore, se un insegnante di musica corregge un allievo, questi cercherà di mettere in pratica il suggerimento, dedicandovi tempo ed impegno. E’ difficile immaginare che si metta a discutere con l’allenatore o con l’insegnante, dicendo, ad esempio, che gli è impossibile migliorare una determinata tecnica a causa del suo carattere, o del fatto che ha avuto genitori di un certo tipo, o perché prova rabbia e risentimento nei confronti della fidanzata. Né avanzerà la giustificazione che il rilievo o il suggerimento non era corretto in quanto non è riuscito a metterlo in pratica subito.
Eppure, sembra proprio questo il modo in cui normalmente le persone reagiscono quando ad allenarle non è un allenatore di calcio o un maestro di tennis, ma un terapeuta od un counselor.
Queste mosse dei clienti vengono dette resistenze. Gran parte del tempo in terapia rischia di andare perduto in conseguenza di questo incredibile malinteso, alimentato per la verità da pratiche terapeutiche, egemoniche in passato, che tendevano, e tendono tutt’oggi, a prolungarsi all’infinito.
Tali pratiche erano accomunata da due convinzioni:
▪ l’analisi è tutto ciò che è necessario per produrre il cambiamento, e non c’è quindi alcun bisogno di impegnarsi ad apprendere nuove abitudini
▪ la persona deve arrivare da sola a scoprire ciò che gli serve per trasformare il proprio carattere
Tutto il resto viene visto come indebita e pericolosa interferenza da parte del terapeuta, una forma di manipolazione o addestramento. Si ammette quindi solo la psico-analisi, non la psico-agogia. Anni e anni di scarsi risultati non hanno fatto cambiare opinione ai sostenitori di questa teoria.
Essi sembrano affezionati alla massima di Hegel: se i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti.
A nostro avviso, molti modelli terapeutici sono innecessariamente complicati e scarsamente efficaci perché si occupano eccessivamente delle cause remote dei problemi e trascurano quelle attuali: i modi distorti in cui la persona comunica con se stessa e con gli altri.
La prima mossa in questa direzione è quindi rendere consapevole la persona delle barriere e dei racket che utilizza nella conversazione quotidiana, compresa quella con se stessa, attraverso i quali perde lucidità, energia vitale ed affiliazione, e genera una quantità sempre maggiore di sofferenza relazionale.
Spesso non occorre risalire ad un lontano passato, né è necessario fare ipotesi complicate.
Se si guarda bene, in gran parte dei casi, le cause della sofferenza sono proprio lì, davanti ai nostri occhi, nel qui ed ora.
Come sosteneva Reich, la nevrosi attuale ha un’impatto molto più grande della nevrosi storica.
Mauro Scardovelli